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Riflessioni sulla giustizia in Italia

Per intraprendere un’analisi sufficientemente accurata della giustizia penale italiana penso sia doveroso partire da una disamina del rapporto che lega la società con la fonte primaria del diritto italiano, ossia la Costituzione.

La Carta Costituzionale è ottima e ancora moderna nella parte dedicata ai principi fondamentali, tuttavia risulta antiquata, superata, per quanto attiene la seconda parte, dedicata all’ordinamento della Repubblica.

È vecchia perché “costruita” e pensata per un periodo storico – politico totalmente diverso e tramontato, è vecchia perché, nel voler imporre un estremo e ipertrofico garantismo, ha finito per ingessare l’intero sistema.

Bisogna, prima di tutto, capire se il tessuto che lega un popolo ad una storia e ad uno stato, nel quadro di una determinata costituzione, anche dal punto di vista politico, “regga” ancora.

Credo che questo tessuto si stia logorando e sempre più “sfilacciando” e per dimostrare quanto affermato basta prendere in esame proprio la situazione della giustizia penale, ossia di uno dei momenti più simbolici e importanti della vita di una Nazione, in quanto strettamente collegato all’idea di Stato.

L’esempio più evidente è dato dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, ex art. 112 Costituzione: sbandierato da più parti come una conquista di civiltà, a causa dello scontro con la realtà, ossia con la mole “mostruosa” di notizie di reato che pervengono in ogni Procura della Repubblica, è finito per diventare uno strumento temibile di discrezionalità, ovviamente non voluta dal legislatore.

Si pensi al numero di procedimenti penali che cadono inesorabilmente sotto la mannaia della prescrizione e ci si renderà conto che l’obbligatorietà dell’azione penale è da tempo, oramai, un principio essenzialmente astratto.

La discrezionalità, si diceva: un aspetto essenziale, quando si parla di giustizia, essendo uno dei principi fondamentali di ogni società; un aspetto innegabile e insostituibile dello ius dicere, quindi, poiché ancora non si è trovato il modo di ridurre i giudici a “bouche de la loi”, così come suggerito dai rivoluzionari francesi!

Onde evitare il rischio di pericolose derive e di conflitti di attribuzioni tra poteri dello Stato, la discrezionalità del giudice deve essere sapientemente dosata entro contorni ben precisi.

Un suo utilizzo incauto, infatti, comporta il rischio che il giudice si arroghi la prerogativa di sostituirsi al potere legislativo, il quale trae le sue prerogative dall’esito di libere elezioni.

Il rischio di una patologia del sistema, in rapporto all’utilizzo della discrezionalità del giudice, è alto. Solo il legislatore può limitarla efficacemente attraverso disposizioni semplici, il più possibile chiare.

Purtroppo, da ormai molti anni, si registra una sorta di “anarchia legislativa”; per dirla come il celebre Saint Just: “troppe e lunghe leggi sono calamità pubbliche”. I legislatori, di destra e di sinistra, sfornano norme somiglianti molto più a grida manzoniane, piuttosto che a regole precise e “lineari”.

Alla base del fenomeno c’è una legislazione, che da troppi anni agisce sulle conseguenze, invece che sulle cause, operando così in un clima perennemente emergenziale, anche e soprattutto sui temi della giustizia.

Le statistiche sulla giustizia italiana ci consegnano un quadro imbarazzante della situazione, con conseguenze facilmente intuibili.

La giurisdizione è e verrà sempre più disertata da chiunque ne abbia appena qualche possibilità, poiché sono in molti a pensare che lo Stato non possa più rappresentare lo strumento per riparare un torto.

Urge una riforma radicale, profonda, della giustizia, da farsi con grande coscienza e morale.

Ecco, la questione morale: alla stregua di un morto mal sepolto, la morale è come uno zombie, che esce periodicamente alla luce per “tormentarci”.

Gli italiani non sono un popolo particolarmente morale: il nostro è il paese delle corporazioni e delle lobby. Erano corporazioni quelle dell’epoca di Dante; sono corporazioni, oggi, i tassisti, i notai, i piloti, i giornalisti, gli insegnanti, i cattedratici e, perché no, anche gli studenti.

Mussolini, uno che non andava troppo per il sottile, aveva cooptato questa sciagura incorporandola nel fascismo e inventando la Camera dei fasci e delle corporazioni.

I magistrati italiani, unico esempio europeo, costituiscono una corporazione.

Ogni corporazione, e quindi anche la magistratura, proclamandosi indipendente, fa di tutto per mantenere lo status quo.

Così, se da un lato il legislatore fatica a proporre riforme strutturali in tema di giustizia, dall’altro lato, qualora vi siano dei tentativi in tal senso, sono osteggiati duramente e considerati come una sorta di “diabbolo” di matrice medievale

Penso che le diagnosi sui mali della giustizia penale italiana siano molte e sufficientemente chiare: ora serve la terapia, che dovrà necessariamente scardinare il fortilizio corporativo della magistratura, rappresentato, in primis, dal Consiglio Superiore della Magistratura, diventato una terza camera del sistema costituzionale, che lancia veti, scomuniche e anatemi a chiunque osi proporre riforme.

Occorre ridurre notevolmente il protagonismo mediatico – politico che l’apparato giudiziario ha acquisito, specialmente dagli inizi degli anni ’90 (penso alle inchieste di Tangentopoli), problema, quest’ultimo, che si connette anche con i profili della tutela della privacy dell’indagato e dei soggetti coinvolti nelle indagini.

Penso poi che sia necessario rivedere il modello dell’esecuzione penale italiana, in modo tale da riaffermare un principio che da troppo tempo la gente invoca, ossia la certezza della pena, caduta nell’oblio dopo l’entrata in vigore della legge 354/1975 sull’ordinamento penitenziario e della legge Gozzini.

Infine, una riforma della giustizia penale passa anche attraverso la definitiva separazione delle carriere tra requirente e giudicante e l’approntamento di una procedura penale più rapida, efficiente e, soprattutto, meno ipertrofica.

Per eliminare le storture del sistema – giustizia potrebbe essere necessario modificare la Carta Costituzionale: non si pensi, però, ad un atto di lesa maestà; d’altronde un intervento di “restauro” sapientemente eseguito ha sempre giovato a qualsiasi costruzione un po’ antiquata: sarà utile anche ad una costruzione normativa.